Quando sono andato a Roma ho vissuto per un mese in un appartamento con due coinquilini, una di cui era una casertana. All’inizio ho avuto delle difficoltà a capirla perché usava tante parole tipiche del centro-sud che non conoscevo.

Per esempio, invece di comprare, “pigliava” delle cose. Dopo essersi “ritirata” (tornata a casa), non andava a dormire, ma a “coricà” (coricarsi). Non aveva fame, “teneva” fame.

Le “stampelle” non erano attrezzi per aiutare a camminare ma per appendere gli abiti (grucce appendiabiti).

Alcune parole erano pronunciate con delle consonanti doppie: “libbero”, “subbito”, “sabb ato”, “Flamminio”. Per il resto, usava il “mo’” napoletano (ora, adesso) e semplificava alcune parole: l’articolo definito “la” diventava “’a” (“’a domenica” per dire “la domenica”) e i verbi erano troncati: “fà” invece di “fare”, “camminà” invece di “camminare”, ecc.

Conoscevo già prima alcuni di questi aspetti grazie ai film e alle serie che si svolgono a Roma, ma “pigliare” e “coricarsi” erano proprio nuovi per me.

Aggiornamento 18 giugno 2023: rileggendo questo post mi fa sorridere la catalogazione ingenua delle parole in «nord»/standard e «sud». Come l’ho imparato dopo, le parole e modi di parlare sopra elencati sono tipici dell’italiano napoletanizzato: non è napoletano (non c’è il rotacismo, per esempio), ma è un italiano che trae alcuni particolari del dialetto.